Lo chiamavano il “Marocco Utile” i francesi quel pezzo di terra che in sei ore attraverseremo in treno. Terra fertile, mare, porti, agricoltura e commerci. Lo si vede quasi subito, appena le rotaie girano verso la costa. Il paesaggio che abbraccia la linea ferroviaria subisce una trasformazione quasi immediata. Campi coltivati, come fosse primavera, con germogli verde brillante di grano. Rettangoli vasti e perfetti e puliti. File di campi di fichi d’india, recinti naturali per tenere lontani gli animali, cinghiali e volpi, dai cascinali, dalle coltivazioni. Il nostro scompartimento è pieno, gente tranquilla e silenziosa.
Mi alzo per comprare dei panini. Dalla pace del nostro vagone passo di vettura in vettura al caos, al pianto di bimbi, ai pacchi e le sacche, al vocio di passeggeri scombinati, al rombo del treno, spaventoso per me quando scorgo le porte aperte e vedo la velocità a un passo da me, e mi appiccico alle pareti e afferro con forza le maniglie per paura di cadere fuori, mentre rilassati ragazzi, mescolano il fumo delle sigarette a boccate di aria di passaggio con il muso affacciato fuori, come fosse una finestra.
Sembrano due mondi diversi, quello del nostro vagone, prima classe, con il mondo dei vagoni in testa, la seconda. Ma per poco, in realtà. Entriamo a Casablanca alla stazione del centro e il nostro scompartimento si svuota. Siamo solo noi, ora, e siamo ignari del teatro di figure e personaggi che ci accompagnerà da qui in avanti, fino alla nostra destinazione: Fez.
Il primo personaggio della serie entra nel nostro scompartimento e si siede vicino al corridoio. Ha una valigetta, una ventiquattrore di stoffa, sbiadita e sgualcita. Ci sorride subito. Il viso è gioviale, il sorriso generoso, basso di statura, odora intensamente di capra. Si presenta con entusiasmo. Dopo le domande di rito (di dove siete e dove andate) dice di essere una guida turistica nazionale, di essere di Meknes e che se vogliamo ci può dare un po’ di indicazioni per Fez. Non riusciamo nemmeno a rispondere, perché agitato si alza improvvisamente e dice di aver visto un suo amico, che lo raggiunge, ma che torna. Si alza e con la borsa stretta tra le braccia esce, quasi trafelato. Niccolò ed io ci guardiamo con un punto di domanda nello sguardo. “Mah”, diciamo e torniamo alla nostra pace, a guardare fuori dal finestrino. Stiamo attraversando Casablanca e il treno entra nella seconda stazione della città. Prima di arrivare, due uomini entrano nello scompartimento. Vestiti di scuro, uno ha un giubbotto nero, è senza capelli. L’altro, più giovane, gli si siede di fronte, entrambi vicino al corridoio. Entrambi hanno musi duri, sguardi severi. Sono serissimi e si guardano. Il più giovane ci chiede di dove siamo: “Italie” rispondiamo, in francese. Poi, all’improvviso, uno si alza ed esce e poco dopo il suo compare lo segue. Nel frattempo la guida di Meknes passa nel corridoio e viene letteralmente presa dai due figuri vestiti di nero e accompagnata giù dal treno.
Il treno riparte e dopo un po’ torna la guida di Meknes, che evidentemente è riuscita a risalire e che evidentemente non era andata da un amico, ma aveva scorto i due neri figuri, evidentemente poliziotti a controllo del treno. Con la stessa agitazione si siede e ci programma le tre giornate di Fez. Lui è di Meknes, spiega, e non può farci da guida a Fez, ma poiché è saggio diffidare delle guide non autorizzate, ci propone lui una guida. Che la può chiamare subito e prenotare i nostri tre giorni. Noi rifiutiamo il suo … aiuto. Diciamo che no, che non vogliamo pianificare ora le cose. Lui insiste un po’ e poi, offeso, se ne va, ricordandoci prima di uscire dallo scompartimento che dobbiamo diffidare delle guide non ufficiali.
Siamo di nuovo soli. Perplessi. Ridiamo… Ma altri personaggi sono pronti ad entrare in scena. Sono due, di nuovo due uomini. Uno con il faccione tondo e i capelli grigi. L’altro giovane. Si siedono anche loro vicino al corridoio. Il più anziano ad un certo punto si sdraia e mette quasi la testa sulle mie gambe. L’altro allunga le gambe e dorme, ma a me inquieta un po’ perché tiene un occhio sempre aperto.
L’illusione delle apparenze. Ecco, questa potrebbe essere una buona sintesi di ciò che provo e che sovente accade, qui in Marocco. Persone gentilissime, ma furbe e menzognere, ti portano a diffidare degli altri. La guida di Meknes, ad esempio, che aveva un viso più generoso e solare e aperto rispetto ai chi lo ha cacciato dal treno, era un furfantello mentre i “buoni” erano quelli con la faccia cattiva vestiti di nero. Anche ora qualche dubbio ci assale. Il controllore controlla i biglietti e uno dei due si deve spostare. Forse sono davvero solo due lavoratori stanchi, due pendolari che ora dormono dopo una giornata di lavoro. L’illusione delle apparenze.
A Meknes siamo soli, di nuovo, ma di nuovo per poco.
L’ultima comparsa è un ragazzo. Si siede di nuovo vicino al corridoio. È giovane, allegro, positivo. Ci fa alcune domande, le solite (dove andate, da dove venite?) e poi d’un tratto chiede se i posti a fianco sono liberi. Noi annuiamo e lui, con un sorriso dice: “Bene, allora vado a prendere mia sorella”. Si alza, esce e se ne va. E non torna più. Come se la sorella fosse scomparsa o come se anche lui fosse solo, di nuovo, un’illusione delle apparenze.. …
Siamo ormai soli da un po’. Ad un tratto il treno frena bruscamente e si spengono le luci. Poi riparte. Fuori ormai è buio. Non si vede nulla. Si ferma di nuovo. Sentiamo trambusto, voci. Una torcia nel corridoio si avvicina e ci punta la luce. È il controllore. Siamo arrivati, ci dice. Dovete scendere. Non ci eravamo nemmeno accorti di essere entrati in stazione, perché siamo in fondo al treno, perché stavamo chiacchierando, perché eravamo ormai tranquilli dopo ore di viaggio e di illusioni superate senza danno.
Finalmente, dunque, siamo arrivati. Raccogliamo i bagagli e i tappeti e scendiamo. Dentro la stazione ci aspetta il nostro autista. Gli andiamo incontro. Ci salutiamo e saliamo in macchina e via, verso la Medina, verso la nostra casa per prossimi tre giorni.
(4 gennaio 2012)
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